LA CARNE E LO SPIRITO

Carne: pulsante, accesa, ingombrante, massiccia... è la pittura che si fa muscolo vivo e intona una sinfonia digestiva, un metabolizzare la materia e i colori del mondo attraverso la sublime crudeltà del gesto espressivo.

Spirito: fluido, volatile, invisibilmente solido... lo spazio della consacrazione accoglie la carne pittorica nel suo ventre morbido, lascia galleggiare i volumi dipinti come un pianeta infuocato nel buio cosmico.

Vincenzo Pennacchi rimette in gioco la superficie del fare pittura, credendo in una vita biologica della materia cromatica, riaprendo il contenzioso interiore con la potenza barocca della memoria. Le forme spezzate o parziali richiamano il ciclo alimentare della natura, non dimenticando la veggenza di quanti hanno perimetrato e “suturato” la ferita aperta. Penso a Goya e Edvard Munch, Rembrandt e Chaïm Soutine, Caravaggio e Hermann Nitsch, Artemisia Gentileschi e Marina Abramovic... artisti che hanno sentito l’odore del sangue nel timbro della notte, scivolando dentro il trauma della carne urlante, lungo la metafora sociale di una violenza estrema ma riscattabile. Le opere di questo ciclo sono urla metalliche che rimbombano nel nero, lampi solidi che scorrono fuori e dentro lo sguardo. Hanno l’impatto evocativo del crash che spaventa, quel modus pittorico che richiama un James G. Ballard più molecolare e ascetico. I colori si accendono come fossero lampi urbani di qualche metropoli meticcia, la natura informale del gesto mette insieme la tragica vitalità dell’incidente (la nostra era è costellata da incidenti che segnano svolte epocali) con la metafora iconoclasta di una figurazione organica. Ci sento anche l’automatismo estremo di William S. Burroughs, intellettuale più interiore di Ballard ma altrettanto catartico nel modo biologico di leggere il reale. Natura e artificio dialogano nei suoi libri sotto il segno del sangue, della carne lacerata, della patologia virulenta. E’ la stessa cosa che “ascolto” davanti alle formule installative di Pennacchi, dove ritrovo una coscienza batterica della bellezza, un epitaffio indomito della resistenza umana di fronte all’incedere dell’universo.

La fotografia restituisce lo spazio reale della visione. La costruzione di ogni inquadratura disegna l’attraversamento linguistico. L’estetica della consumazione si esprime qui con matura cognizione spaziale. Un luogo svuotato dalle sue protesi rituali si rianima attraverso i volumi installativi dell’opera. In un attimo riaffiorano silenzi meditativi, echi sacrali, densità che riguardano lo spirito profondo di certi ambienti. La stessa opera diviene superficie percorribile, spazio dentro lo spazio, lingua arcaica e al contempo futuribile. Carne e spirito in una sintesi che fonde ogni differenza percepibile.Il conflitto si ricompatta senza scomparire. La battaglia molecolare attraversa l’opera e il suo spazio elettivo. Dentro l’opera: dove non esiste morte ma continua rinascita.

“La preoccupazione del filosofo è vedere; quella dello scienziato è di trovare degli appigli. Il suo pensiero non è guidato dalla preoccupazione di vedere ma di intervenire. Vuole sfuggire alla paralisi del vedere filosofico, così spesso lavora come un cieco, per analogia.” M. Merleau-Ponty

Chi si azzarderebbe ad affrontare un tema come quello della carne e dello spirito, senza partire dalla Lettera di San Paolo ai Gàlati o dalle abbaglianti riflessioni di Sant’Agostino? O dal tormento di Michelangelo quanto, piuttosto, dalle tentazioni di Sant’Antonio? Tuttavia si è scelta, in questa sede, un’altra strada, che privilegia una lettura in senso fenomenologico, prima che teologico, del lavoro di Vincenzo Pennas, concepito come un indissolubile intreccio tra l’io ed il mondo. La definizione del filosofo francese calza a pennello sul modus operandi di Pennacchi, perché traduce e giustifica una ricerca spasmodica, instancabile, per taluni incomprensibile, dettata da un’unica preoccupazione: “trovare degli appigli”, “intervenire”, agire, segnare quel “foglio” – con cui metaforicamente Merleau-Ponty definiva la Natura – ed interporsi, infilarsi, introdursi in quella “piega” – con cui metaforicamente Merleau-Ponty definiva la Vita, con un unico obiettivo: affermare la propria esistenza ma anche quella di chi, da quella “piega”, preferisce stare alla larga, facendo bizzarri tentativi, tragicomici, per stirarla, distenderla, travestirla, mimetizzarla, alienandola sotto mentite spoglie. Una manovra temeraria quanto valorosa, quella di Pennacchi, per svegliare i “dormiglioni”, quelli che dietro il famoso “foglio” si nascondono anziché prendere coscienza che si tratta di un unicum, un fronte-retro inseparabile, un all inclusive dal quale non si può prescindere. Ma anche una coraggiosa inchiesta sulla verità, un tentativo di avere risposte certe, esaustive, che possano se non soddisfare per lo meno placare momentaneamente un tormento. Ed il suo è il tormento peculiare dello scienziato, del ricercatore - e quindi dell’artista - di chi vede con gli occhi interni della propria immaginazione e cerca disperatamente di (ri)costruirne una rappresentazione protesica esterna, visibile, un po’ più tangibile rispetto a nient’altro che una mera intuizione. In questa visione la carne è lo spirito e lo spirito è la carne, non potrebbe essere altrimenti, due facce della stessa medaglia o, per dirla con Merleau-Ponty, dello stesso foglio. Foglio - interfaccia - involucro - superficie - velodimaya - limite - comunicazione - interazione. Foglio, tessuto, trama, superficie, pelle, sempre e comunque con due facce, in cui fronte e retro però non possono che coincidere. La vita e la morte, la passione e la crocifissione, temi ossessivamente presenti nel lavoro dell’artista, alludono, senza mai rappresentarla, alla figura di Cristo, fronte-retro inseparabile, unicum di carne e di spirito per antonomasia, nel momento drammatico del passaggio, in cui la “piega” si fa lacerazione: è lo strappo del “foglio”, e lo squarcio della tela, è la rivelazione.

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2012-2013 EX CONVENTO DI SAN FRANCESCO - VELLETRI

SILVIA SFRECOLA ROMANI
GIANLUCA MARZIANI

Il lavoro di Vincenzo Pennacchi nell’ex Convento di San Francesco a Velletri, si situa all’interno di un’esigenza forte di comunicazione. E’ una comunicazione a più livelli, un dialogo che l’artista istaura tra il suo microcosmo e tutto ciò che è all’esterno. Riprendendo il tema della domus, la casa interiore, che ha già trattato in precedenza, inizia un colloquio attivo tra il contenitore e il contenuto, tra l’edificio architettonico e la forma complessa dell’istallazione. Le suggestioni emanate dall’ambiente architettonico che ha scelto, involucro chiesastico sconsacrato, nella sua qualità di spazio ritmico, cadenzato dai numerosi e ponderosi pilastri, che si interpongo tra gli archi a tutto sesto e scompartito sui fianchi da molteplici, piccole cappelle, gli offre lo spunto per istaurare un dialogo strutturale con l’architettura. Lo colpiscono la purezza delle membrature, la ritmica linearità degli archi a tutto sesto, con i quali cerca un rapporto di comunicazione e di continuità geometrica. Lo interessa la possibilità ideativa offerta dagli ampi volumi nell’alzato. Ma non è un rapporto di tipo sacrale, quale l’oggetto dell’istallazione, La Carne e lo Spirito, e la destinazione trascorsa dell’edificio cultuale possano far pensare. E’ un rapporto tra strutture, tra un’architettura del passato e l’introduzione di nuove edificazioni, reali e metaforiche, che palesano un mondo interiore in forte conflittualità. Vincenzo Pennacchi elabora l’idea del tempio nel tempio introducendovi la propria vis edificatoria. Oppone, quindi, alla struttura statica squadrata esistente, un nuovo assetto modulato sul cilindro, una forma parimenti armonica ma che stride con il suo rugginoso vissuto.
Il dialogo continua nel rapporto dualistico tra la carne, metafora di una visione drammatica dell’uomo contemporaneo, dominato dall’irrazionalità delle passioni e il bisogno di quiete, di rigenerazione, di elevazione spirituale. La Carne è il trionfo del sentimento del macabro che alberga nella casa interiore. E’ metafora del conflitto viscerale che anima l’uomo contemporaneo che, a causa dei turbamenti offerti dalla “macelleria” della quotidianità, elabora nel suo inconscio i simulacri delle paure e delle incertezze. Sono visioni di mostruosi e digrignanti esseri che si incontrano nei meandri della vita interiore e che, con un gioco di rimandi, si specchiano, deformano e amplificano, suscitando un umano sentimento di smarrimento. Nel luogo personale più intimo ed inviolabile, giace sull’altare la vittima sacrificale, una straziata presenza, un doloroso grido che squarcia il silenzio. Nell’incalzare delle spaventose allucinazioni, delle materiche, enigmatiche entità, che silenziosamente presenziano i sanguigni conflitti, l’artista esprime, con l’uso di un cromatismo violento, la forza drammatica dei suoi sentimenti ma anche l’esigenza di una liberazione interiore. Manifestando il suo disagio, egli al contempo esorcizza il suo doloroso sentire, facendosi emotivamente interprete del malessere della collettività. Di contro, lo Spirito è la ricerca dell’armonia, in contrapposizione agli stridenti sentimenti della Carne.

L'artista si inoltra in un percorso creativo nel quale, l’esigenza di purificazione, diviene obiettivo primario. Sviluppa un antitetico linguaggio dominato dagli ampi teli bianchi. Tuttavia il cammino catartico non è immediato. Il raggiungimento della limpidità interiore, in consonanza con il cosmo, non si mostra con la chiarezza desiderata. Teli imbrattati, anonime figure contaminate da gocciolanti cromatismi scandiscono l’incessante, ritmico incedere, tra luce ed ombra. Il linguaggio primario dell’artista, il colore, segna il passaggio dall’inferno al purgatorio. Alle giustapposizioni violente, risponde la levità dei toni che accompagna l’agognata rinascita. Ma l’indeterminata proiezione dei desideri umani, di uno splendente biancore, irradia, al di sopra di tutte le passioni, di tutti i relitti putrefatti, quell’energia positiva di cui l’uomo necessita per corroborare il suo spirito. Essa è guida verso un ipotetico centro, punto focale dell’equilibrio interiore, sacrale meta dell’artista-viandante.
Tuttavia la casa interiore di Vincenzo Pennacchi non costituisce un’entità cristallizzata in un’unica forma. I suoi dolorosi eccessi emotivi si specchiano, si amplificano, si frammentano in immagini ulteriori. E’ interessante notare come il gioco di specchi creato dall’artista continui il dialogo tra i termini di immagine e luce, rimandando o meglio riflettendo il suo combattuto spirito verso le aperture dell’edificio, verso il tessuto di una città, in una interazione totale tra creazione ed ambiente. I molteplici dialoghi di Vincenzo Pennacchi non si esauriscono in una circoscritta, personalissima visione ma si allargano alla ricerca di una prospettiva storica. L’artista lavora febbrilmente per sintonizzare il suo sentire a ciò che lo circonda. Carpisce il dato oggettivo dell’edificio storicizzato, l’antica accoglienza della comunità religiosa, la coralità abitativa delle famiglie sfollate durante la guerra, e interpreta con inusitata passione le presenze che il vissuto di quella fabbrica architettonica gli offre. La sua lucida visione, generata da impervie discese e slanci in risalita dell’anima, impietoso ritratto immaginativo delle sue pulsioni, si connette con vigore, partendo dalla sua domus interiore ai sentimenti di un’intera comunità. La Carne e lo Spirito, tra creatività, passione e storia, è narrazione di se stessi ma forse anche di qualcun altro.

CLAUDIA ZACCAGNINI
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